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Non ci guardiamo più in faccia



Un fatto si ripete abbastanza spesso quando avvengono certi fatti di cronaca. Quando avviene un omicidio tremendo e spietato, i vicini di casa dicono sempre tutti in coro dell’assassino  «era un tipo tranquillo». Poi i parenti della vittima invece dicono con rabbia e odio (anche dopo tanti anni dall’omicidio) «vogliamo giustizia!». E come il copione di un film. Si potrebbe pensare che  quelle frasi gliele imponga la giornalista d’assalto se vogliono vedersi sul tg della sera, e non sarebbe inverosimile visto come sono i giornalisti d'assalto in cerca di carriera, costi quel che costi e come spesso è incapace di produrre da sè un giudizio comprensibile la  gente da loro intervistata (spesso poi persone sapientemente selezionate, pare che quelli cercano solo certe persone). Se invece quelle frasi fossero davvero dette con convinzione e consapevolezza, si devono pensare due cose. Che sia davvero un tipo tranquillo uno che compia un assassinio spietato e efferato, qualche dubbio lo fa venire. Si dovrebbe dedurre che chi fa queste considerazioni o è complice o cieco e anaffettivo. Probabilmente invece la verità è che non ci guardiamo più in faccia e oltre al buongiorno e buonasera (e così è già tanto) non andiamo. Perché questo è proprio il modo in cui viviamo davvero: non ci guardiamo negli occhi, non ci aiutiamo, non ci sosteniamo, non ci capiamo, le famiglie sono sole e indifferenti in mezzo a persone indifferenti, ognuno blindato dentro al proprio appartamento in cui non entra mai nessuno, non sappiamo nulla di quello che abita nella porta accanto, di come soffre, di come vive, di come vivono i figli, la moglie… l’importante però è che «dopo una certa ora non si faccia rumore perché io vado a dormire». E la regola numero uno: «mi faccio i fatti miei». E così quando uno “esplode” si dice «ma era un tipo tranquillo», «come può essere successo?». Ma il brutto è che si dice questo con ignara sincerità. Sono frasi fatte, che escono dalla bocca , ma senza passare prima dal cuore e poi dal cervello e pechè la prassi vuole che si dica questo in quelle situazioni.  Ma la verità è che non sappiamo veramente che tipo era quello là. Probabilmente costui non era tranquillo per niente e se magari lo si guardava un po’ sulla faccia, si ascoltava quello che diceva, gli si faceva qualche domanda in attesa dell’ascensore, qualche dubbio poteva venire fuori (e forse—forse—si poteva aiutare). In merito poi alla richiesta rabbiosa di giustizia. A me personalmente se avessi un parente o un amico morto ucciso, verrebbe da pensare «sarà morto in grazia di Dio? Dove sarà ora?». E mi verrebbe da pregare per la sua anima e chiederei preghiere a tutti. La giustizia mi interessa certamente, ma fino ad un certo punto. Ma di certo non sarà una sentenza di un uomo con la toga nera (del tutto indifferente al mio dolore e che svolge il suo lavoro distaccato secondo una fredda procedura da applicare) a ridare la vita al mio parente o al mio amico con tutto il bagaglio di ricordi e di sentimenti che restano qui. Può essere poi che la giustizia non trionfi mai o che potrebbe accadere che dopo venti anni si dovrà ricominciare nuovamente il processo. Magari nel frattempo prima del pieno e definitivo compimento della Giustizia umana ci saremo anche invecchiati, malati, morti. A che ci serve allora aspettarla con rabbia? Ci sono due tipi di giustizia quella dell’uomo e quella di Dio. La prima la conosciamo molto bene. La seconda potra tardare, ma non mancherà mai. Aspettiamo quest’ultima e preghiamo sempre per le anime dei defunti e dei peccatori. Ogni giorno.

Il Pio

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